PRATI STABILI E TERRICCIATA
“Si vuole chiamare così da me e da altri con un vocabolo derivato dal toscano un ammasso di terra alla quale sono stati misti molti vegetali, e discreta qualità di letame che si lasciano ammucchiati tutti insieme oltre lo spazio di un anno, e se ne ha un buon concime ottimo per molti usi”. Tratto da L’ortolano dirozzato di Filippo Re cavaliere dell’ordine della Corona di ferro, p. professore di agraria nella R. Università di Bologna, Volume primo, Milano, Presso Giovanni Silvestri, 1811.
La pratica agronomica della terricciata era tipica oltre che della Toscana anche dell’Emilia, soprattutto nelle zone caratterizzate da prati stabili, dove consisteva nel mescolare letame con terra e distribuire l’impasto all’inizio dell’inverno con il duplice scopo di nutrire il prato e ripristinare il terreno in seguito all’erosione superficiale causata dalle ripetute irrigazioni per scorrimento. Veniva realizzata ponendo su di uno spazio rettangolare di terreno, lungo circa 20 metri e largo 10, strati di letame bovino maturo intervallati da strati di terra sino ad assumere una forma a parallelepipedo, ancora oggi chiamata nel dialetto reggiano “truscera”, terricciata appunto. Il parallelepipedo, che poteva raggiungere un’altezza di 100 o 150 centimetri, veniva squadrato perfettamente, divenendo motivo di orgoglio per l’agricoltore che lo aveva realizzato con grande cura.
La terricciata veniva innaffiata nel periodo primaverile estivo con colaticcio bovino ed era quindi pronta per essere cosparsa sui prati terminata la fienagione. Per quanto riguarda l’utilizzo del prato stabile antico, era abitudine effettuare tre sfalci, di cui il primo e il terzo erano comunemente destinati alla fienagione. Il primo taglio si realizzava alla fine di maggio o inizio di giugno (maggiatica), il secondo (guaime) a meta di luglio (non abbondante per la scarsità dell’acqua) e il terzo alla fine d’agosto inizio di settembre era incerto e a volte si utilizzava come pascolo. Era solo con il sopraggiungere dell’autunno e dei primi freddi che iniziava la letamazione o come si usava dire un tempo si procedeva a “quacèr i prè” ovvero a coprire i prati con questo prezioso strato di concime.
Questa operazione, un tempo manuale, divenne successivamente meccanica avvantaggiandosi di carri spargi letame. In autunno inoltrato si usava ricoprire i prati stabili con questo prezioso concime al fine di “ingrassarli”. La letamazione con terricciata dei prati stabili veniva effettuata utilizzando letame esclusivamente bovino: mediamente un agricoltore calcolava che 2 capi di bestiame adulto producessero il letame necessario per un ettaro di prato. Trattandosi di una pratica dagli elevati costi e difficoltà, andò quasi completamente persa e oggi spesso ci si limita a far maturare in campo il cumulo di letame.
Alla perdita della frazione pedofisica che invece era presente nel vero terricciato, le migliori espressioni di questa pratica propongono oggi un paio di rivoltamenti meccanici del cumulo, che solo raramente è dislocato tra arginelli di terreno zappato preventivamente e ruspato accuratamente. Nei territori di Guastalla, Barco e Bibbiano è ancora oggi possibile vedere alcune moderne versioni della tipica terricciata, spesso presso aziende agricole legate alla filiera del Parmigiano Reggiano che hanno deciso di fondare i loro sistemi di produzione sul rispetto del terreno, delle piante e degli animali, sull’impiego di concimi e alimenti esclusivamente naturali cercando di conservare la tradizione contadina.
Attraversando senza fretta la campagna reggiana in autunno, potresti imbatterti in una moderna terricciata trasformata, come accadeva un tempo nei pressi delle abitazioni contadine, in rigoglioso orto, un basso e largo parallelepipedo nel quale crescono zucche e patate, esile testimonianza di un’antica tradizione contadina.
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